Quando ci riferiamo ai suoni sappiamo che essi si qualificano in molti modi, dal momento che essi hanno un volume, un timbro, delle proporzioni: possiamo misurare i suoni, ricavarne differenti sensazioni e connotarli dal punto di vista estetico. Ogni musicista sceglie la propria elaborazione sonora formando un proprio linguaggio in cui si riconosce e tenta di far riconoscere gli altri: per il percussionista Sergio Armaroli (1972) è fortissima la capacità allusiva dei materiali, dei luoghi linguistici della filosofia dell’immaginazione e dei teoremi nascosti dentro la prestanza sonora. Giovanni Piana, nel suo Elementi di una dottrina dell’esperienza, diceva che costruzione linguistica dei suoni ed esperienza fossero due paradigmi inseparabili, mettendo in discussione persino il concetto di “impressione” che normalmente scaturisce dall’ascolto musicale. L’esperienza, la ricerca, la fluidità delle trame sonore sono ciò che caratterizza la musica di Armaroli, a cui noi dobbiamo solo prestare attenzione perché espressiva di un mondo controcorrente: Sergio stimola le relazioni, una psicosi necessaria della speculazione intellettuale e fissa un focus sulla suggestione del pensiero, valorizzando benissimo lo sfondo e le pareti della sua musica. Armaroli non è solo un musicista, ma anche un poeta part-time, un pittore, uno scrittore ed un sound artist che propugna un proprio concetto di “scritturalità diffusa”, qualcosa che si comprende in una propensione semiotica che si sostanzia in quanto appena detto.
Armaroli è intervenuto su gran parte dei generi dell’alta nobiltà musicale:
a) con una quasi costante preferenza del vibrafono, Armaroli nel jazz ha per esempio trovato punti di intersezione personali, avvicinandosi benissimo e a suo modo alle insidiose pastoie del rock, jazz-rock o delle discipline new age in Tecrit (progetto con Sinigaglia, la cui mia recensione la trovi qui) e nel jazz più ortodosso ha risvegliato l’interesse su un bop moderno, che profuma di Monk, american jazz anni sessanta e Andrew Hill, con una resa più irregolare nelle soluzioni che si trova stabilita nelle operazioni con l’Axis Quartet e con quelle di un trascurato jazzista americano di nome Billy Lester;
b) nel campo dell’improvvisazione libera è entrato in una relazione costante con Giancarlo Schiaffini e con un gruppo di improvvisatori di cui condivide scopi e percezioni temporali: oltre ad una chiara aderenza alle concettualità di John Cage e a quelle dei compositori del movimento del Fluxus, votati all’arte e alla performance, Armaroli ha affrontato da par suo l’evento, la riorganizzazione delle improvvisazioni sotto forme macro e micro (vedi qui e qui le recensioni di Daniel Barbiero e la mia, su questi atteggiamenti) e la loro scia cognitiva nel ramo elettroacustico (i modelli seguiti in tal senso vanno oltre che verso un lato estetico di Luc Ferrari anche nel senso della scuola acusmatica francese); in Duos & Trios, cd con Sjostrom e Schiaffini, in cui ho avuto l’onore di scrivere le note di copertina, si potrebbe parlare di musica da camera dell’improvvisazione in una dettagliata rete di connessioni estese in cui Armaroli è il collante fisico e descrittivo delle situazioni sonore. Nel gruppo dei suoi abituali collaboratori si può, poi, enucleare anche un favore verso i “raddoppi” dei set percussivi e delle formazioni in campo, anche qui circostanze trattate comunque con impostazioni differenti: da una parte, con Fritz Hauser nella collaborazione di Structuring the silence (vedi qui mia recensione) c’è un’incredibile mimetizzazione degli interventi, dall’altra, con Andrea Centazzo, si tende invece a creare strutture sonore da contrapporre alla grandeur e all’ampiezza di suoni percussivi visti come icone; nel TRIOplusTRIO che unisce il suo trio (Schiaffini e Prati) con il trio Cartoon (Roger Turner, Chris Briscoe, John Pope), l’accrescimento numerico è finalizzato al soundscape evolutivo, una produzione sonora dell’improvvisazione dove Armaroli fa sentire il suo peso per senso e ricerca sul suono, lavorando a tratti anche sul vibrafono preparato con oggetti e fogli che modificano od ostruiscono il suono puro dello strumento;
c) c’è anche un Armaroli studioso di elettronica che sfugge forse alla comprensione superficiale dell’ascoltatore così come è stata sfuggente la ricerca “antropologica” da lui svolta su suoni, risonanze e ritmiche della marimba, allo scopo di far conoscere le origini africane che coinvolgono la legnosità dello strumento (da una parte vi consiglio di ascoltare Microelectronicsnel sito dell’artista e dall’altra il solo marimba Early Alchemy);
d) la parte contemporanea è chiaramente influenzata dalla musica per percussioni post seconda guerra, a cui si deve aggiungere una devozione per la musica di John Cage: oltre ad un solo percussivo con pezzi spalmati su differenti configurazioni strumentali (cimbali, berimbau, triangolo, mbira, snare drum, marimba, etc.), di cui purtroppo non ho conoscenza d’ascolto, Armaroli ha esplorato il repertorio percussivo di Cage tramite il quartetto di Empty Words Percussion Ensemble (due volumi pubblicati finora dalla Da Vinci). Il nuovo cd inTrasparenza, pubblicato sempre per DaVinci Records, apre una porta articolata sull’Armaroli compositore, con 6 composizioni dislocate nel corso degli anni, in cui sono assenti i principi delle reinterpretazioni di Cage alle percussioni oppure si adeguano in qualche modo al pensiero di Sergio, facendoci carpire altri aspetti dell’arte del percussionista. Si tratta di subliminalità diversificate: innanzitutto un paio di riferimenti di matrice tedesca, frutto di due commissioni tra il 2006 e il 2007, la prima è impostata sulla bellezza della mezzo-soprano sorba Tanja Donath, la seconda su Bertold Brecht. In Ryma, per piano, flauto e voce, si avvicendano musica e poesia in una clima misto, tra dolore e romanticismo, tra Gorecki e Schubert, mentre la Ballade von den selbsthelferndi Bertold Brecht subisce un trattamento più marcatamente drammaturgico e il lied non si avvicina per nulla alla famosa versione di Gisela May, in cui si riconosceva il carattere parodico profuso sulle poesie da Brecht; per piano, violino e voce baritono, essa lascia spazio in sequenze per ognuno dei partecipanti e spazio per una riflessione più oscura. Poi, ci si addentra in Cave Carmen, affidata al violino in solo di Irvine Arditti, dove Armaroli punta sulla comprensione dello spazio sonoro e sulle sue caratteristiche (inerpicamenti, pause, brevi dilatazioni), stavolta con un buon auspicio sottostante (Armaroli richiama l’adagio “life means to fall seven times and to lift oneself up eight times“); in All last nothing last, Armaroli si mette al piano, costellando i brividi timbrici, le note estemporanee, gli armonici e i silenzi dello strumento di contro ad un nastro che ne ha distorto l’esatta connotazione timbrica, in ciò che si sostanzia come un saggio sulle propensioni percussive del pianoforte.
Le composizioni più recenti sono Ramo inTrasparenza, per percussioni e live electronics, dalla sensibilità incrociata tra Cage e i concretisti, tra fessurazioni sonore e climatiche sinfonie degli uccelli e Plus (x) per trombone e computer tape, in cui viene istituita una funzione matematica tra le due componenti che marciano su dialogicità e glissando strumentali costruiti in fasi temporali.
Ho parlato un pò con lui. Qui di seguito il resoconto.
EG: John Cage fu profetico quando disse che i compositori avrebbero scritto musica senza più pensare al tono fondamentale e tenendo davanti a loro l’intera gamma dei suoni, compreso il rumore. Oggi si sono adeguate le estetiche, le tecniche compositive, e molta nuova composizione non può far a meno di tirar linfa da queste affermazioni. Un ascolto globale della tua musica fa intendere che scintille dei principi di Cage sono sempre presenti: posizioni ritmiche, gestualità, silenzi, eventi, etc.. Dopo oltre cent’anni dalla sua nascita, qual è l’aspetto di Cage che più senti vivo, attuale e consono alla tua attività di musicista e compositore?
SA: Il rapporto di Cage con la musica è sempre stato molto complesso e per questo motivo estremamente vitale e necessario; parlo di musica e non di suono o rumore. La musica per Cage, alla fine di una lunga vita concentrata a sperimentare nuovi opportunità di esistenza non lineare, è stata una grande consolazione, la musica avrebbe potuto esistere e manifestarsi come condizione possibile di presenza. Cage parla di Anarchic Harmony, cosa intende? Un pensiero musicale, una musicalità estesa, comprendente l’esistente e tutti i suoni, compresa la musica e compreso il silenzio (che non sono altro che tutti i suoni non intenzionali). Nel mio ultimo lavoroPrismo, che uscirà per Hat Hut nei prossimi giorni, ho sviluppato una riflessione approfondita attorno al concetto di silenzio insieme a Andy Hamilton, filosofo e musicista, a partire dal mio lungo lavoro di relazione con il compositore e percussionista svizzero Fritz Hauser dal titolo:Structuring The Silence. Un silenzio come evenienza del luogo, dell’ambiente, all’interno della condotta improvvisativa in questo caso estesa al quartetto con il pianoforte di mia moglie, Francesca Gemmo e del violoncello di Martina Brodbeck. Di Cage io “prendo” in particolare l’ultimo periodo, quello dei Number Pieces dove strutture temporali vengono adattate alla sensibilità e all’identità sonora di un singolo improvvisatore (come modello per una società anarchica, avrebbe aggiunto Cage). Improvvisare all’interno di una struttura temporale, a partire dal silenzio, significa dare senso e significato all’atto dell’ascolto come luogo e centro esatto della forma. La musica allora non è più l’espressione totalizzante dell’esperienza dell’ascolto ma, dopo Cage, ne diventa una parte anche marginale in quanto è il luogo, il contesto ad essere posto al centro. L’ascoltatore solo nel momento esatto dell’ascolto riesce a dare forma, il compositore, l’improvvisatore si sottraggono per lasciare libero questo spazio. Cage ha permesso di superare il linguaggio e di tornare al linguaggio con una nuova consapevolezza. Non amava il jazz ma ha permesso a molti come me di ritornare al jazz con un sensibilità nuova aprendo i margini d’ascolto (che oggi purtroppo si stanno chiudendo, penso alle parole di compositori e interpreti in cui si dichiara che anche “la musica contemporanea è un genere”!). Per Cage la musica non è più un problema di “genere” o di linguaggio ma un problema di ascolto. Naturalmente un livello successivo in Cage è quello puramente mentale dove la presenza sonora stessa, la fisicità del suono diventa secondaria; il suono in fondo è una costruzione puramente mentale e così la musica non può che essere, in ultima istanza: pensiero. E qui si chiude il cerchio. All’interno di questo cerchio Cage ci ha dato una grande libertà: nonviolenza, ascolto, accettazione degli eventi, immanenza, casualità; non linearità in fondo. Tutto questo io non lo dimentico mai quando lavoro a un progetto o semplicemente creo rapporti tra le cose. Compongo, suono o scrivo.
EG: La tua musica è predisposta per una sorta di evoluzione transmediale, in cui convergono auralmente immagini, poesie, teatralità e percorsi semiotici. Solitamente questo stile porta con sé l’idea di una riconciliazione con il mondo e sintonizza l’autore e i suoi ascoltatori verso un possibile modo di percepire i suoni, anche quelli che sentiamo intorno a noi. Come percepisce ed interagisce il musicista Armaroli?
SA: Il mezzo, per quanto mi riguarda, non è altro che un pretesto: uno strumento nel senso etimologico del termine: un arnese. Quella che tu chiami trasmedialità appartiene forse di più al mio sistema nervoso. Credo nell’unità dell’esperienza e nell’unità inscindibile dei sensi. L’intelligenza delle cose e i suoni sono “strumenti intelligenti”. Lo sforzo consiste nel riconciliarsi con il mondo e sintonizzarsi affidandosi a questa complessità senza erigere barriere o, ritornando a generi come forme stilizzate riconoscibili ma vuote: morte. Mi piace la vita e la compresenza di contraddizioni insanabili. Tutto deve dunque esistere simultaneamente: tutto va bene!, avrebbe esclamato il filosofo dell’anarchismo epistemologico Paul K. Feyerabend. In verità è forse la poesia la mia condizione di partenza e ciò a cui aspiro, una esistenzapoetica e uno stato di estasi, infine. Il resto è accidente linguistico. La musica è parte di questo gioco, una parte necessaria ma non indispensabile. L’accento poetico, il verso, il ritmo invece sono fondamentali, forse più della musica, per il mio equilibrio anche mentale. Ritornando alla prima domanda è forse il Cage poeta quello che più mi ha influenzato. La parola e la sua voce: un incanto. Si può capire così la religiosità del suono. La presenza.
EG: Early alchemy è stato uno splendido intervento sulla marimba in solo. I marimbisti che improvvisano sullo strumento con un progetto specifico si contano sulle punta delle dita. Tuttavia, mi sembra di percepire una prevalenza verso l’utilizzo del vibrafono a detrimento della marimba e delle classiche percussioni con mallets. Il motivo sta solo nel fatto che il vibrafono ha meno rischi di essere mal interpretato a livello sonoro (soprattutto negli ambienti più tradizionali del jazz) o c’è qualcosa legata al tuo stile e alle tecniche?
SA: La marimba è il mio “strumento matrice”, il mio strumento di riferimento dove tutti i problemi tecnici ed espressivi si presentano all’interno della grande tradizione, penso a J.S. Bach. La sua musica sulla marimba ha un fascino unico. Mentre il vibrafono è la mia voce, se vuoi. Uno strumento più linguistico, legato certo alla grande storia e tradizione del jazz. La marimba è forse più neutra, una meta-tastiera che mi obbliga sempre a pensare all’Africa “di senso” come portato necessario e ineludibile del mio essere, nonostante tutto, percussionista. Diciamo che la condizione primigenia è quella del percussionismo, che io cerco sempre di esplorare nei doppi che ho creato con Fritz Hauser, Andrea Centazzo e Roger Turner; la mia personale declinazione nel jazz è invece il vibrafono mentre la marimba mi apre sempre a un contesto musicale più ampio a cui dovrei aggiungere il balafon cromatico (penso a un prossimo progetto dedicato a Monk con Giancarlo Schiaffini in duo e in quartetto con l’aggiunta di Giovanni Maier e Urban Kusar alla batteria per Dodicilune sostenuto dai fondamentali Maurizio Bizzochetti e Gabriele Rampino grazie ai quali ho innestato tutti questi percorsi molteplici e rabdomantici); in aggiunta alle tastiere a percussione alle volte suono glockenspiel e crotali per estendere lo spettro armonico e separatamente lo xilofono che pratico in stretta relazione con gli anni d’oro della Radio e delle primissime registrazioni su rulli Edison per un lavoro, dentro il linguaggio, che da anni porto avanti segretamente ma di cui non posso ancora parlare.
EG: Nelle collaborazioni con Walter Prati, Giancarlo Schiaffini o Harri Sjostrom emerge un tuo contributo fondamentale per una sorta di nuova musica da camera, resa disponibile per l’improvvisazione: la differenza non sta solo nel dettaglio dell’esperienza sonora ma anche nei mezzi che hai usato per costruire le relazioni inusuali con trombone e sax soprano; si potrebbe azzardare una rischiosa affermazione dicendo che hai unito le previsioni ritmiche e il senso dell’opera di Cage con quell’improvvisazione che storicamente transige sull’imperfezione e sulla dialogicità?
SA: Si, hai colto perfettamente il senso. Il dettaglio sonoro è il senso e il gioco sottile di rimandi all’interno di un pensiero percussivo esteso. Cage ha scritto (vado a memoria): “quando vogliamo ascoltare per ascoltare i suoni li sentiamo come strumenti a percussione”, con questo vuole dire che ascoltiamo i suoni per quello che sono in se stessi. Quello che, non così consapevolmente, ho voluto fare e faccio è intrecciare dialoghi, nello spirito, forse, di un rinnovato camerismo, che però si estende verso e dentro il paesaggio sonoro (nell’esercizio di un pensiero critico “da camera” –forse abbiamo rinunciato a fare la rivoluzione- ma non piccolo-borghese; questo come annotazione a un certo situazionismo che mi caratterizza oltre Debord). Gli strumenti che uso sono utensili e non hanno un significato particolare, li uso da percussionista appunto, per ascoltare i suoni in se stessi.
EG: Ti faccio una domanda che probabilmente ti hanno fatto in tanti, ma che è utile per i lettori di Percorsi Musicali. Riguarda le tue cognizioni artistiche oltre la musica, perché se per i riferimenti musicali si può enucleare un asse di modelli, per quelli riferiti alla poesia, la pittura o le arti visuali abbiamo meno informazioni. Che cosa hai apprezzato in questi settori dell’arte? Ci sono modelli particolari che stai studiando e approfondendo ancora oggi?
SA: La tua domanda meriterebbe una risposta molto articolata che cercherò di sintetizzare. Per la poesia i miei modelli sono molto diversi nell’arco che va dalla poesia-poesia, alla poesia sonora fino alla poesia visiva. Tutto si intreccia e si confonde: Sandro Penna, Amelia Rosselli, Giuseppe Ungaretti fino alla poesia del Trecento, da Jacopone da Todi tralasciando Dante e più Petrarca; Joyce, Walser, Zeichen… sono un lettore fortissimo, bulimico e compulsivo ma non seguo una linea preordinata. Nelle mie ultime due raccolte pubblicate da Manni Editori, Idioletto smemorato e Orchestrate collisioni ho iniziato a separarmi da un lirismo troppo intimista sottraendo l’Io poetico al testo a favore di una evenienza dei materiali testuali attraverso procedure aleatorie (con un richiamo forte a Cage e a Jackson MacLow); ho iniziato a comporre e scrivere poesia in modo simile influenzandomi e mescolando un senso poetico espresso con un gioco di parole, un suono o un ritmo ricercato. Ho così pensato di scrivere in quello che io chiamo: nella lingua di (nello stesso modo in cui mi mimetizzo nei progetti più Bebop con Billy Lester cercando un innesto nella lingua). La poesia è il mio vero laboratorio. Per la pittura sconto tutto un percorso di studi accademici che mi hanno segnato profondamente e che mi hanno obbligato a “nascondermi”. Il mio riferimento costante è Marcel Duchamp (Cage diceva giustamente: volete scrivere musica allora studiate Marcel Duchamp!) e Francis Picabia per la pratica pittorica che abbandono e riprendo a ritmi regolari durante tutte le fasi della mia vita. Una costante per me, ora, è lo spazio di Erratum about sound | visual | text (www.erratum.it) che ho ideato e creato e che curo insieme all’artista, musicista e poeta Steve Piccolo a Milano dal 2017.Con Steve ho trovato un equilibrio che mi permette di innestare tutte queste molteplici esperienze e di presentarle all’interno di uno spazio di “consistenza poetica” performance, suono, parola, gesto ed estensioni testuali. Ultimamente, in fase di lockdown, ho realizzato un Silent film, ErratumFilm (visibile a questo link: https://vimeo.com/448111456 ) utilizzando procedure casuali (il programma IC di Andrew Culver) con la collaborazione di Fabio Selvafiorita, musicista, compositore e filmaker che mi assiste in queste mie peregrinazioni esplorative al limitare tra visto e non-visto, udito non-udito in quello che Duchamp chiamava l’infrasottile (infra-mince).
EG: Sei uno dei musicisti più intellettualmente preparati in Italia e i tuoi interventi non mancano mai di interesse. Cosa c’è nel futuro di Sergio Armaroli?
SA: Ti ringrazio per le tue parole e la tua fiducia. Sono lusingato di questo. Ho sempre creduto nell’importanza del pensiero, il mio vero strumento è il mio cervello: la mia mente. Per questo ho sempre preferito di gran lunga un buon libro all’ennesimo studio di scale e arpeggi (che pratico quasi ogni giorno!). Allo stesso credo nel dialogo e nella parola, come dici giustamente: inseparabilità di costruzione linguistica e suono. Nel mio futuro c’è un’apertura verso il paesaggio sonoro, come ti ho già anticipato: nella memoria del paesaggio sonoro, attraverso la pratica del field recording per un nuovo progetto Mahler/Cage con l’esplorazione fotografica dell’amico Roberto Masotti e dell’ingegnere del suono e compositore Alessandro Camnasio. ConErratum una prossima mostra di fotografie realizzate a Berlino nel 2006 dopo un mio concerto con la cantante iconica Ingrid Caven dove indago la fotografia come Indice; un duo già pronto con Roger Turner, un lavoro in trio insieme a Elliott Sharp e Steve Piccolo attorno al blues, Blue in Mind un nuovo pezzo per tuba sola dedicato a Giancarlo Schiaffini dal titolo NatanGiò; la miaaboutCage per Da Vinci curata insieme all’amico produttore discografico e raffinatissimo ascoltatore Edmondo Filippini; un duo con Fritz Hauser che uscirà per Leo Records nel gennaio 2021 registrato dal vivo ad Angelica e la mia prossima raccolta poetica in forma di Atlante Figurato e… mi allontano e mi avvicino alla musica assecondando il mio movimento pendolare attorno al mio asse di equilibrio.